Sunday, October 20, 2024
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Gerald Murnane, lo scrittore che sussurra ai cavalli

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«Un uomo a cavallo è spiritualmente e fisicamente superiore a un uomo a piedi» scriveva John Steinbeck in un romanzo del ’33, Il cavallino rosso. A Gerald Murnane, scrittore australiano nato nel ’39, poco conosciuto – anzi come ha scritto il New York Instances nel 2018, quando improvvisamente i suoi libri vennero ristampati sia nel suo Paese sia in America, «il più grande autore vivente di cui la maggioranza della gente non ha mai sentito parlare» – interessano però i cavalli in sé, a prescindere dall’uomo, a meno che sia un fantino.

Per gran parte della vita ha scritto di ippodromi, di scommesse, di contemplazione sognate e di gare oltre naturalmente di infiniti, spesso indecifrabili, paesaggi australiani. Si è mosso pochissimo, non è mai salito su un aereo, ha insegnato all’Università e ora, o almeno fino a poco tempo fa, gestisce il bar di un golf membership.

Non mancano resoconti e aneddoti circa la sua riservatezza un po’ beffarda, per esempio in occasione di un convegno a lui dedicato, quando i critici finalmente lo riscoprirono: pretese che si svolgesse nel golf membership di Goroke, la cittadina semi deserta nel Sud Est del continente a molte ore di auto da Melbourbe, dove vive da tempo.

Accolse gli studiosi ospiti in veste di barman, dedicando peraltro scarsa attenzione alle dottissime relazioni. In Italia è pubblicato dall’editore Safarà, che ha già tradotto il suo libro d’esordio, Tamarischi Row, romanzo a forte valenza proustiana (per ammissione dell’autore stesso) sulle gare ippiche e il padre scommettitore, e Le pianure (un viaggio si direbbe straniante nell’thought di quella pianura sconfinata che si estende dovunque).

Ora esce Qualcosa per il dolore, memoir ancora una volta dedicato agli ippodromi, visti come una sorta di religione almeno nelle reazioni psicologiche che provocano in quelli, come lui, che ne sono adepti fin dall’infanzia. Ed è curioso come un tema del genere ci ritorni da molto lontano dopo essere quasi scomparso nella nostra – e altrui – letteratura (a Cormac McCarthy interessavano com’è noto, semmai, i «cavalli selvaggi» della Trilogia della frontiera).

Si potrebbe citare ovviamente un bel romanzo di Hans Tuzzi, Perché Yellow non correrà, un poliziesco della serie dedicata al commissario Melis, e poco di più; magari Il Palio delle contrade morte di Fruttero& Lucentini, ma è altra cosa, un giallo metafisico sullo sfondo del Palio di Siena.

Per ritrovare questo ambiente in Italia bisogna andare indietro nel tempo fino a La carriera di Pimlico, di Manlio Cancogni (gettone Einaudi del 1956), apologo su un purosangue riluttante, che sostanzialmente non vuole prevalere, vincere, trionfare, e sui suoi compagni di scuderia, che adombrano una dinamica del tutto umana – è l’occasione buona per rileggerlo; o al Cesare Pavese di Le feste, uno dei racconti di Feria d’Agosto, dove un cavallo da corsa è legato a eventi luttuosi, quasi portatore di una maledizione, e un ragazzo, Pino, dopo una gara «piangeva dalla rabbia di non essere un cavallo anche lui». Chissà se è accaduto anche a Murnane. Lui ha scritto che può patire di solitudine in infinite circostanze, mai all’ippodromo.

Nel tempo è stato candidato al Nobel, va da sé, ma in fondo come tanti altri. Resta un autore misterioso, non per la vita riservatissima ma proprio per la sua dimensione letteraria. E’ davvero un grande scrittore sfuggito per gran parte della vita a quasi tutti, lettori, media, persino critici, quel che il popolo degli addetti ai lavori sogna di incontrare almeno una volta nella vita? Alcuni suoi colleghi di gran nome, come J. M. Coetzee o Teju Cole – che lo paragona a Thomas Beckett – non hanno dubbi in proposito. Murnane è ipnotico e indiosincratico, sembra rifiutarsi alla convenzione del raccontare e poi lo fa invece meravigliosamente, se pure in una dispersione atomistica, per brevi lasse (capitoli tutti titolati, talvolta in modo impercettibilmente straniante), per epifanie minime. Dall’epica antica dell’ippodromo approda a una sorta di disincantata – ed elegiaca – religione ippica, si direbbe del tutto totalizzante: il che, a ben guardare, sembra un poco provocatorio.

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