Da sempre la democrazia è lenta, complessa, confusa. Non a caso già Platone la criticava ferocemente, con la metafora dei cattivi coppieri ne “La Repubblica”: “Quanto la città retta a democrazia si ubriaca di libertà confondendola con la licenza, con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi l’immunità con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni sorta di illegalità e di soperchieria… Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo”. Period il 370 a.C.
Eppure, malgrado tutto, ancora oggi pensiamo che la democrazia sia il miglior modello di governo, o quanto meno il meno peggiore che abbiamo inventato, per dirla con Churchill. E, tuttavia, continuiamo a lamentarci che la nostra democrazia funziona male, che è colpa dei partiti, della legge elettorale, della scarsa affezione di noi elettori, in fondo ormai abbastanza soddisfatti del livello di benessere raggiunto e indifferenti a messaggi politici spesso simili. Siamo in post-democrazia per dirla con Colin Crunch.
Quasi non ci pensiamo, ma la nostra democrazia si è profondamente trasformata, per una causa molto più banale e quotidiana: l’avvento del digitale.
La democrazia tradizionale si è fondata sul confronto delle idee. Sui grandi discorsi, di Pericle, Demostene, Cicerone. Un modello che abbiamo portato fino a pochi anni fa. I confronti in piazza o le tribune politiche in television, con il chief che si confrontavano con argomenti complessi, teorici, ricchi di citazioni. Discorsi per tutti, affinché tutti si potessero confrontare con le stesse idee e gli stessi progetti. Il pluralismo della democrazia, cioè. Nelle piazze piene, con discorsi di ore, grandi idee, grandi ideali.
Pensiamo che quando nel 1854 venne organizzato uno dei primi dibattiti fra i candidati presidenti venne stabilito che il repubblicano Lincoln e il democratico Douglas avessero a disposizione tre ore ciascuno. Si avete letto bene: tre ore!
Oggi invece il messaggio politico passa su un TikTok o su un Tweet: 50 secondi al massimo. Impressiona che anche un politico non giovane come Silvio Berlusconi abbai deciso di aprire un profilo TikTok che ha raggiunto in poche ore 350 mila follower e 4 milioni di visualizzazioni.
La grande rivoluzione del digitale. Avevamo sognato che il digitale ci potesse portare a una democrazia diretta in tempo reale. Nel 1996 Pierre Levy aveva ipotizzato che la rete potesse trasformare la democrazia in una enorme “agorà”, in cui ciascuno di noi potesse decidere e valutare, in una partecipazione continua. Una democrazia aperta, libera, fondata sulla partecipazione immediata di tutti.
Invece il digitale ci ha reso sempre più soli e isolati. Nella comunità virtuale ciascuno di noi non partecipa al processo decisionale, ma riceve messaggi unilaterali che influenzano il nostro comportamento anche politico.
Il punto più impressionante è che i messaggi ricevuti da ciascuno di noi sono personalizzati, nel senso che ciascuno di noi è profilato dalla rete e quindi nelle campagne elettorali i chief possono mandare a ogni elettore il messaggio giusto, anche su temi scottanti e divisivi, come, advert esempio, l’immigrazione o la diversità di genere. Tutto ciò è emerso in maniera evidente nella campagna elettorale che ha portato Donald Trump alla presidenza USA, utilizzando la società Cambridge analitica, che sosteneva di avere un profilo personale di ciascun elettore americano!
Questi profili non sono costruiti su intercettazioni o informazioni carpite abusivamente. Perché ciascuno di noi con il suo smartphone continuamente trasmette dati, preferenze, opinioni. Una profilazione psicometrica continua. E il paradosso più grande è che ciascuno di noi di sottomette ben volentieri lo facciamo ben volentieri, perché ciascuno di noi adora il suo smartphone, che invece è uno strumento di controllo e sottomissione continua. In un enorme grande fratello alla Orwell.
Ne viene fuori una campagna elettorale frammentata, superficiale, personalizzata, in cui non servono grandi ragionamenti, coerenza, razionalità: ma bastano i messaggi, corti, secchi semplici. Ecco perché i “meme” o i “reel” si stanno rivelando strumenti di gigantesca efficacia. Una comunicazione per immagini e non più per concetti.
Queste strategie elettorali non sono decise dai candidati. Perché se è vero che i chief indicano le linee fondamentali del programma politico, ma poi sono gli algoritmi a elaborarli e diffonderli. In maniera sapiente e personalizzata.
Se le cose stanno davvero così come sembra, il un futuro ben prossimo la nostra democrazia non può che trasformarsi definitivamente in una democrazia “tecnocratica”. Non nel senso platonico di governo dei tecnici, cioè dei migliori, ma piuttosto di governo delle macchine, perché saranno le macchine a consigliare i programmi più efficaci, elaborarli, diffonderli, raggiungere i singoli elettori.
Sarà sempre apparentemente un governo “del popolo”, ma guidato “da pochi”, tecnocrati e burocrati, un governo di semplici “guardiani”, secondo una mutuazione dell’espressione platonica (Robert Dahl). Sarà una società fondata sul controllo, ma anche apparentemente sempre più palliativa, come immaginata nel mondo nuovo di Huxley: “Comunità, Identità, Stabilità”.
Queste tendenze saranno ancora più estese quando il controllo sulle nostre vite non sarà solo dovuto all’uso personale dello smartphone, ma anche a un controllo ambientale continuo. Intendo riferirmi non solo alla diffusione di telecamere e di strumenti di riconoscimento facciale come sta già accadendo in Cina. Ma soprattutto al progetto di trasferite ampie fette della popolazione in città del tutto artificiali, chiuse, protette, digitalizzate, come vediamo nei progetti in Arabia saudita per costruire The Mukkaab e The Line metropolis: cioè il cubo gigantesco di 400 metri per lato vicino Riad e la good metropolis progettata come una enorme retta di vetro e acciaio, lunga oltre 100 kilometri (!), in cui far vivere fino a ten milioni di persone in un ambiente del tutto protetto, ma continuamente controllato.
Il dilemma di fondo non può che essere uno: la democrazia del domani funzionerà meglio o peggio della democrazia con cui cerchiamo di regolare le nostre vite da oltre 25 secoli? Il sistema politico del futuro ci vedrà come “sudditi” che delegheranno a un algoritmo e a tecnici la responsabilità di prendere le decisioni che non vogliamo (o non sappiamo) prendere, oppure riuscirà a sfruttare il digitale per entrare in contatto con i cittadini e renderli più interessati e partecipi delle decisioni pubbliche?”.