Il governo è tornato a parlare di privatizzazioni. Ha cominciato a farlo all’inizio dell’autunno, quando nella nota di aggiornamento del Documento di programmazione economico-finanziaria ha previsto un piano di dismissioni pari almeno all’1% del pil nel triennio 2024-206 per mitigare un rapporto debito/pil che si prevede non scendere nei prossimi anni. Hanno poi continuato a farlo il Presidente Meloni in conferenza stampa di wonderful anno e il ministro Giorgetti da Davos. Da ultimo, sembra eloquente il silenzio del Mef a commento della notizia sulla possibilità di cessione del 4% di Eni.
Per il momento, l’obiettivo del governo è di cedere partecipazioni dello Stato per ridurre il debito.
È una buona notizia, dal momento che l’abbattimento veloce del debito, se non si compie con la vendita di beni pubblici, lo si attua con imposte straordinarie.
Affrontare il problema dello inventory di debito in questo modo, anziché con un aumento della pressione tributaria, è un segnale importante, sia per i cittadini che per le imprese, specialmente se si considera che le privatizzazioni sono diventate da anni una sorta di tabù o, peggio ancora, un argomento dimenticato. E questo nonostante il fatto che lo Stato detenga ancora quote significative in settori rilevanti di mercato, per fatturato e per strategicità.
Bene fanno, dunque, il Presidente Meloni e il ministro Giorgetti a dare un indirizzo politico in tal senso, in un momento in cui il governo appare ancora forte e solido e la necessità di mitigare l’andamento del rapporto debito/pil si mostra impellente.
Ridurre in questo modo il debito, se auspicabile nell’immediato, non basta a migliorare i conti pubblici. La vera questione è diminuire il rapporto debito/pil riducendo strutturalmente la spesa e consentendo al prodotto interno lordo di aumentare.
Anche in questo le privatizzazioni possono dare una mano: vendere asset pubblici vuol dire non solo fare cassa, ma anche creare condizioni più profittevoli per la concorrenza e, conseguentemente, gettare le basi per la crescita economica. Si può cioè credere, con buone argomentazioni, che le privatizzazioni abbiano una valenza pro-concorrenziale: la presenza dello Stato scoraggia l’ingresso di concorrenti che temono di avere gioco difficile con un competitor pubblico che è, allo stesso tempo, regolato e regolatore.
La cessione di quote ha sì un valore immediato di raccolta di risorse, ma soprattutto serve in prospettiva a “mettere sul mercato” la fornitura di determinati beni o servizi. Se ci si ferma al primo passaggio si rischia di ridurre la privatizzazione a un mero formalismo, con più incerti effetti di competitività e, quindi, di valore aggiunto nel tempo.
Insomma, vendere serve non solo a ricavare un gruzzolo oggi, ma anche a consentire una economia più dinamica domani. Questo è un aspetto essenziale di un buon piano di privatizzazioni, che, guardando retrospettivamente, contribuisce a spiegare perché in alcuni settori esse abbiano funzionato in termini di aumento di efficienza dei servizi e in altri no.
Ma c’è un altro motivo, di più breve strategia, per cui ragionare di di privatizzazioni solo come fonte di massimizzazione dei ricavi, e presentarle in questo modo, è sbagliato.
Annunciare un piano di cessioni solo per motivi cassa vuol dire infatti, come effettivamente ha detto Giorgia Meloni durante la conferenza stampa di wonderful anno, ridurre le quote di partecipazione pubblica senza ridurre il controllo pubblico. È difficile immaginare un reale interesse di investitori privati a comprare quote di aziende nelle quali sanno già in anticipo, che tra le regole del gioco annunciate prima ancora di giocare, c’è quella di restare sotto padrone. Se dovessero dimostrare story interesse, sarebbe solo di tipo finanziario: comporterebbe un trasferimento di ricchezza, ma difficilmente avrebbe effetti discernibili sul mercato e la crescita nel lungo termine.
I mercati reagiscono non solo ai fatti e alle azioni, ma anche ai segnali e alle intenzioni.
La cessione del 25% delle azioni del Monte dei Paschi a dicembre è stata un fatto importante, così come lo è stata l’autorizzazione della vendita di Netco di Tim al fondo KKR con esercizio del golden energy, e quindi con il mantenimento del ruolo del governo nella definizione delle “scelte strategiche”.
Ma altrettanto importante è l’aver dichiarato di voler mantenere il controllo di ciò che si vende. Un segnale poco incoraggiante per chi, più che soldi da spendere, ha investimenti da fare.