Un processo. Iniziato nel 1985 (c’erano Bettino Craxi a Palazzo Chigi e Giovanni Paolo II in Vaticano, nel 1985), andato a sentenza nel 2003, a Genova, diciotto anni dopo che sono una vita, un tempo spropositato, troppo lungo, troppo dilatato. Troppo e basta. E poi un altro procedimento, di rimando, per lo stesso fatto e cioè per quel faldone infinito: con la corte d’appello (di Torino, questa volta) che condanna, nel 2014, il ministero della Giustizia a pagare per l’irragionevole lunghezza dell’operato dei magistrati, due, uno dei quali negli anni Ottanta faceva il giudice istruttore, una figura che non esiste più nell’ordinamento italiano dal 1989. Per dire. Sarebbe sufficiente questo.
E invece passano ancora nove anni. Gli avvocati, le parti, la magistratura contabile, di nuovo a Genova, di nuovo in Liguria, per arrivare a una decisione, a un risarcimento delle casse dell’erario, 5mila euro il primo magistrato (che period il titolare del fascicolo dell’85) e 625 euro il secondo. Che sono spicci, a ben guardare, una parte infinitesimale rispetto ai 44mila euro che lo Stato ha versato, nel 2014, alle due vittime della giustizia lumaca, ma almeno sono un segnale, sono un simbolo, sono un’avvisaglia che la responsabilità civile vale per tutti, togati compresi.
DIRITTO NEGATO
Che cosa abbia riguardato, nello specifico, il processo di 38 anni fa non lo sappiamo. Ma neanche ci importa. Perché comunque non ci sono giustificazioni, non ci sono discolpe: aspettare il nuovo millennio e diciotto anni per ottenere giustizia e un pronunciamento è un diritto negato. Effective della storia. E inizio dell’iter per l’indennizzo, voluto (giustamente) dalle due vittime di quel processo. La legge Pinto, la legge del 2001 sui principi di «equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo», che al netto dei ghirigori forensi e del linguaggio da azzeccagarbugli vuol dire una cosa semplicissima: che uno non può stare in ballo quasi due decenni, con la parcella del legale che lievita, con la vita sospesa, magari per una sciocchezza, magari per un errore, advert aspettare che un tribunale si pronunci e decida il da farsi.
È inaccettabile, in un Paese civile. Ed è inaccettabile pure che l’appello per il risarcimento arrivi undici anni dopo e che ne servano altri nove per rifarsi, vedi alla voce: danno erariale, su Riccardo Realini e Giulio Gaetano De Gregorio, i due magistrati del 1985, ritenuti dai colleghi contabili liguri Emma Rosati e Alessandro Benigni e Adriana Del Pozzo «responsabili a titolo di colpa grave del danno inferto al ministero della Giustizia destinatario di un’ingiunzione di pagamento» per quella «eccessiva durata processuale».
Ha pagato il ministero, nel 2014, 22mila euro, a testa, alle vittime, che assieme fan 44mila euro. Cioè ha pagato lo Stato. Cioè noi con le nostre tasse. Perché è così che funziona. La responsabilità civile delle toghe è indiretta: chi viene danneggiato cita in giudizio lo Stato, che solo in un successivo momento si può rivalere sui magistrati e recuperare parte di quanto sborsato. Verso Realini e De Gregorio (e per la verità anche nei confronti di un geometra, un consulente di un ufficio tecnico, che però poi è stato assolto da ogni accusa), la procura contabile, nove anni fa, chiede un risarcimento complessivo di 17.300 euro. Sono decisi advert arrivare fino in fondo, i giudici contabili della Liguria, perché «Realini e De Gregorio avrebbero gestito il giudizio di primo grado, ciascuno per la frazione oggetto di trattazione, con palese ed inescusabile ritardo».
CONTO MENO SALATO
Parlano le date: una «durata che supera i diciotto anni», ossia «un ritardo determinatosi di oltre tredici» dovuto anche a «numerosissimi rinvii delle udienze che sarebbero immotivati e pressoché privi di attività processuale», tra l’altro «spesso con tempi dilatati e illogici». Loro due, i magistrati, optano per il giudizio abbreviato che ha un vantaggio mica da poco: consente di applicare uno sconto rispetto alla richiesta avanzata ufficialmente, e in questo caso significa poter sforbiciare sull’assegno da intestare alle casse pubbliche. La storia infinita finisce il 15 dicembre scorso, tre giorni fa. E finisce con Realini che deve pagare 5mila euro e con De Gregorio che ne deve versare 625. Entro il 18 aprile dell’anno prossimo. Ché c’è tempo, dopo essere stati in ballo per quasi quarant’anni (dalla prima udienza), quattro mesi in più o in meno che differenza vuoi che facciano?