«La scuola è un organo costituzionale». A sostenerlo non è un fiero oppositore del governo o qualche vecchio professore romantico. Sono parole di Piero Calamandrei, tra i fondatori del Partito d’Azione e membro dell’Assemblea costituente. Le pronuncia in un discorso tenuto l’11 febbraio del 1950 in difesa della scuola pubblica nazionale, a riprova evidentemente di quanto la scuola pubblica abbia da sempre avuto bisogno di essere difesa. Immaginare una scuola non unitaria, secondo Calamandrei, equivale a immaginare un Parlamento, un governo, una magistratura non unitarie. Quindi uno Stato non unitario.
L’hanno chiamata “autonomia differenziata” ma si legge “federalismo”, ed è il vecchio sogno secessionista di Umberto Bossi inverato, su proposta di Calderoli, da un governo che si professa super-italiano, iper-nazionalista, extra-tradizionalista e che, nonostante la retorica del made in Italy, dell’amor patrio e dell’orgoglio nazionale, approva una legge che di fatto quell’unità nazionale la sbriciola, a tutto vantaggio delle regioni del Nord, dicono alcuni. A vantaggio di nessuno, dico io.
Perché un Paese disunito e conflittuale, che rinnega il principio solidaristico affermato dalla Costituzione, che crea differenze e acuisce disuguaglianze che già esistono non può essere un Paese sano. Si cresce solo se si cresce insieme, questo è quello che insegnava don Milani ai suoi alunni. Questo è quello che noi prof ci sforziamo di trasmettere ai nostri, anche se l’evidenza dei fatti spesso ci sconfessa.
La storia del nostro Paese è lunga e complicata. A scuola si arriva al capitolo sull’unità d’Italia solo alla high quality del secondo quantity del manuale, e quello successivo si intitola invariabilmente “La questione meridionale”. Che period un tempo una ferita aperta nel cuore del Paese, un cruccio per i politici che si interrogavano sulle strategie per superare i regionalismi e riuscire a immaginarci, a essere, un solo Paese. Fare l’Italia e fare gli italiani, si auspicava un tempo. Farsi i fatti propri, è il motto di oggi, certificando il fallimento di alcune Regioni e svincolando le altre.
Sul comparto sanità e su quello trasporti ognuno può facilmente attingere alle proprie esperienze personali per sapere che esiste già una particolare forma di turismo medico fatto di viaggi della speranza e trasferte di intere famiglie alla ricerca di remedy adeguate e servizi sanitari di migliore qualità nelle regioni del Centro-Nord. Per quanto riguarda la scuola, sono i famigerati dati delle show Invalsi a parlare, quelli che ogni anno con gli stessi numeri raccontano di un Paese già spaccato, con scuole del Centro-Nord che hanno mediamente risultati migliori di quelle del Sud, con le città che svettano sulle zone rurali, i centri sulle periferie. Su questo state of affairs si va a incardinare una legge che accetta come dato di fatto le differenze tra le regioni e le amplifica. Trasforma anzi le differenze in disuguaglianze. Secondo l’ultimo rapporto di Save the Youngsters, a fronte di una dispersione scolastica nazionale media del 12,7%, la Sicilia raggiunge il 21,1% e la Puglia il 17,6%, mentre in Lombardia è all’11,3%, vicino all’obiettivo europeo del 9% entro il 2030.
Il rischio più evidente della regionalizzazione della scuola è quello di avere 20 sistemi scolastici diversi, con programmi, titoli di studio, numero di alunni per classe, tempo pieno, attrezzature didattiche e gestione del personale locali. Contratti differenziati che nei fatti andrebbero a riproporre le “gabbie salariali” degli anni Sessanta. Formazione e selezione regionali e degli insegnanti. Trasferimenti da regione a regione più complessi, e, più in generale, una differenziazione di standing tra docenti del Nord e quelli delle regioni economicamente più svantaggiate.
Oggi numerous competenze nel comparto istruzione sono già affidate alle regioni, e i già citati dati Invalsi ci suggeriscono che non è un bene. Con l’autonomia differenziata potrebbero passare alle regioni altre materie: la disciplina dell’obbligo scolastico, le norme sulla parità tra istituzioni scolastiche e quindi sul rapporto fra scuola pubblica e privata, quelle relative alle classi di concorso, ai criteri di formazione delle classi, ai parametri per la determinazione degli organici, all’integrazione degli alunni con disabilità, alla prevenzione dell’abbandono e dell’insuccesso scolastico.
Infine, è proprio a partire dai banchi di scuola che si costruisce la cittadinanza e il senso di appartenenza (o di estraneità) a una determinata comunità politica. Chi blatera, spesso a sproposito, di unità della Nazione, dovrebbe ricordare che questa passa innanzitutto per l’unità culturale.
La scuola dovrebbe essere unica, come quella Repubblica fondata sul lavoro di cui all’articolo 1. Unica non nel pensiero ma nelle opportunità, nelle condizioni di partenza, nelle politiche culturali. Unica non perché livellata verso il basso ma perché nascere e crescere a Milano, a Roma nord o a Caivano non sia una predestinazione al successo o all’insuccesso, alla realizzazione o alla marginalità, alla cultura o all’ignoranza.
Unica perché non c’è sviluppo senza uguaglianza. La scuola dovrebbe essere al di sopra delle dispute di partito, svincolata dagli strattoni ideologici, come i pilastri su cui si basa questo piccolo Paese smemorato: la democrazia, la Repubblica, l’antifascismo. Perché è qualcosa che ci riguarda tutti, come l’concept di un futuro: il nostro.