A proposito di «analfabetismo costituzionale o malafede», le due ragioni che, a giudizio del presidente del Senato La Russa, avrebbero portato a sfiorare una crisi istituzionale tra il numero due e il numero uno della Repubblica, ci sarebbe proprio da dire che nell’uno o nell’altro caso questa crisi è stata determinata – o voluta, chissà – proprio dalle affermazioni dello stesso La Russa. Rilasciate in due occasioni, venerdì e ieri, proprio con il tono di chi per conoscenza ed esperienza personale sa come maneggiare una materia delicata come questa. Che può determinare uno squilibrio, appunto, tra il Presidente della Repubblica, garante della Costituzione, e la premier Meloni, che si propone di cambiarla, nel rispetto delle regole democratiche, come hanno fatto alcuni suoi predecessori.
La Russa venerdì cube una cosa che si sapeva, e cioè che Fratelli d’Italia e più in generale il centrodestra, che lo hanno inserito nel programma elettorale della coalizione risultata vincente alle elezioni del 25 settembre 2022, avrebbero preferito il presidenzialismo nella forma dell’elezione diretta del Capo dello Stato, piuttosto che il premierato, cioè la stessa elezione diretta del presidente del consiglio. Il motivo del ripiego, che poi tanto ripiego non è, ma è carico di incognite, sarebbe stata l’intenzione di ridurre la conflittualità con le opposizioni e cercare anzi un’intesa parlamentare la più larga possibile. Cosa che non è avvenuta, e pertanto si andrà invece a uno scontro politico in cui la riforma, se e quando sarà approvata, lo sarà senza il voto di due terzi delle Camere e dovrà pertanto essere sottoposta a referendum, come accadde nel dicembre 2016 per quella proposta da Renzi.
Quanto a La Russa di ieri, ha avanzato una distinzione che lui stesso ha ritenuto di precisare successivamente in una nota in cui riconferma il “conclamato” rispetto per il Capo dello Stato. E cioè: la riforma Meloni-Casellati non toccherebbe nessuno dei poteri “formali” attribuiti dalla Costituzione al Quirinale, intervenendo invece su quelli “ulteriori” che il Presidente ha dovuto through through attribuirsi, a causa della crisi politica permanente che la Repubblica attraversa dalla sua nascita e dell’instabilità dei governi a cui appunto l’introduzione del premier elettivo cercherebbe di rimediare. Va da se che questa precisazione basterebbe da sola a rivelare le vere intenzioni dei riformatori. E soprattutto che non toccherebbe al presidente del Senato, costituzionalmente collocato come «supplente» del Capo dello Stato, in caso di assenza prolungata o impedimento, occuparsene. Ma tant’è: si sa che La Russa in altre occasioni ha chiarito che non intende rinunciare alle sue esternazioni in forza del ruolo che gli è stato assegnato.
Resta il fatto che è evidente (qui La Russa, come ha fatto nella sua nota ufficiale, userebbe le maiuscole) che tra un Capo dello Stato di elezione parlamentare, frutto di un accordo politico, e un premier scelto direttamente dagli elettori, prevarrebbe naturalmente il secondo. Che la sua designazione da parte del Presidente della Repubblica sarebbe meramente formale. E non parliamo della scelta dei ministri, sulla quale attualmente il Quirinale ha un peso importante. L’articolo 92 cube che il Presidente della Repubblica «nomina il presidente del consiglio e su proposta di questo i ministri».
Sta di fatto che in certi casi e nell’esperienza di diversi Presidenti sono stati depennati alcuni nomi dalla lista del governo. I quali invece, proposti da un premier eletto dal popolo, difficilmente potrebbero essere rimessi in discussione. Inoltre il potere di scioglimento delle Camere, che nella formulazione attuale del testo della Carta è affidato al Capo dello Stato, «sentiti i Presidenti delle Camere», in quella nuova farebbe parte di un meccanismo pasticciato per cui il premier eletto non avrebbe potestà in materia, ma in caso di crisi il suo successore sì. E di fronte a una richiesta perentoria proveniente appunto dal successore il Quirinale non potrebbe far altro che adeguarsi.
Sono solo alcuni esempi. Non a caso La Russa in precedenza definì la proposta messa a punto dal governo «arzigogolata». In quell’occasione il presidente del Senato riuscì insieme a trattenersi, nel rispetto del suo ruolo, e a dir tutto con un aggettivo. Mentre venerdì e ieri si è lasciato andare. Inoltre ci dev’essere una ragione se tutti i costituzionalisti ascoltati finora in Parlamento abbiano espresso le loro riserve sul progetto Meloni-Casellati. E se sempre La Russa, quasi a incoraggiare un cambiamento, abbia voluto ricordare che il Parlamento è libero di modificarlo.
Ora dalle sue affermazioni è nato un caso politico: le opposizioni chiedono dimissioni che difficilmente il presidente del Senato darà. La riforma costituzionale, come quella della giustizia, prima ancora di entrare nel vivo sta procurando problemi a un governo che ne ha già a sufficienza. Chissà, si chiedono in tanti, se quando parlava di «analfabetismo costituzionale» La Russa ce l’aveva solo con i giornalisti. Ma al punto in cui è arrivato, tanto vale parlar chiaro, come spesso è solito fare, e non continuare a silurare con le allusioni una riforma che chiaramente non gli piace.